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Corriere della Sera – Davide Cassani e l’ultimo atto da ct: «Lascio un movimento in salute. Un rimpianto? Non aver capito Pantani»

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Ciclismo, il commissario della nazionale lascerà domenica dopo il Mondiale in Belgio: «Le critiche? Non serve rispondere. A Trento bravo Colbrelli, ma Trentin decisivo»

Otto medaglie, delle quali quattro d’oro; il primo posto nel medagliere; domenica, la ciliegina su una torta già peraltro bella ricca di canditi, il trionfo di Sonny Colbrelli. Si è chiuso a Trento un campionato d’Europa da favola per l’Italia. Negli ultimi tempi, ha subito dure e pesanti critiche (dopo i mondiali in Belgio non sarà più il ct della nazionale) Davide Cassani, e qualche sassolino avrebbe potuto toglierselo. Non lo ha fatto, limitandosi a dire «Sono emozioni indescrivibili». per la sua successione è una corsa a tre: Maurizio Fondriest, Filippo Pozzato e Daniele Bennati.

Cassani, evviva la signorilità…
«Le critiche, buone o cattive, ci stanno. Rispondere non serve a nulla. L’unica cosa da fare è fare bene il mio lavoro. Guardi gli allenatori di calcio, vincono tre partite e sono dei fenomeni, ne perdono tre e li cacciano. È un mondo che va così ormai».

In serie A ne sono già saltati due dopo tre giornate di campionato.
«Ecco…vede».

Dagli europei sono arrivati risultati mica male per un ciclismo italiano dipinto in crisi. In realtà, come stiamo?
«Il nostro ciclismo sta abbastanza bene, è ancora un movimento di riferimento. Se poi andiamo indietro di 30-40 anni, è naturale che la situazione non sia più la stessa. Il mondo è cambiato: una volta i riferimenti eravamo noi, i francesi, i belgi e gli spagnoli; oggi i campioni arrivano da tutto il mondo. Per questo sono contento di quanto abbiamo fatto a Trento; abbiamo ottenuto risultati con i giovani, ragazze e ragazzi: significa che stiamo seminando bene. Abbiamo dimostrato di esserci».

Che corridore è Sonny Colbrelli. Dove può arrivare?
«Come ha fatto domenica, può vincere corse importanti di un giorno. È maturato tardi, ha ora trovato l’equilibrio psicofisico, ci ha messo impegno e costanza. Domenica ha mostrato freddezza e senso tattico non indifferenti, nulla gli è precluso. È dal Giro del Delfinato che ha cambiato marcia».

Matteo Trentin, quarto, ha esultato come se avesse vinto lui. Segno che lo spirito di squadra non solo c’è, ma è forte: e ora al mondiale come ci presentiamo?
«Sapeva della vittoria di Sonny, perché glielo abbiamo urlato noi. Ha subito esultato. Matteo è stato un regista perfetto: quando in corsa ho lui, io mi sento tranquillo. Abbiamo vinto da squadra e ai mondiali in Belgio andremo con quello stesso spirito».

Per lei la federazione sta pensando a un ruolo manageriale ritagliato sui giovani e lo sviluppo del ciclismo. Un’Academy italiana. Le piace l’idea?
«Fino al 26 settembre penso alla Nazionale, poi a cosa fare da grande. In questi otto anni ho sempre sostenuto che bisogna lavorare con i giovani, il nostro futuro e la base del nostro movimento».

A chi si è ispirato in bicicletta, prima come corridore e poi come ct?
«Da corridore a Felice Gimondi; da tecnico a Bruno Reverberi che mi fece passare tra i professionisti, e poi a Giancarlo Ferretti e Alfredo Martini: tutti uomini che mi hanno dato veramente tanto».

La sua vittoria più bella da corridore?
«Nel 1990, la prima delle mie due vittorie al Giro dell’Emilia. Un giorno indimenticabile»

Il ciclismo è uno straordinario veicolo promozionale per i territori; lei che è pure presidente dell’Apt Emilia-Romagna, che ne pensa?
«La nostra regione crede nel turismo sportivo ed è impegnata a promuovere tanti eventi. Siamo l’unica regione ad avere una squadra dilettantistica; si chiama Emilia-Romagna ed è composta di dieci ragazzini tutti emiliano-romagnoli».

Eppure, in Italia non abbiamo nemmeno una squadra nel World Tour: com’è possibile?
«Questo bisognerebbe chiederlo agli imprenditori italiani. Il ciclismo è sinonimo di ecologia, salute e sostenibilità. Un messaggio che altrove hanno colto; spero succeda presto anche qui in Italia».

A Trento si è anche parlato di sicurezza in una serata della Fondazione Michele Scarponi: quanto c’è ancora da fare?
«Molto, da parte di tutti, istituzioni e utenti della strada. Sono troppe le vite spezzate in bicicletta, a piedi, in moto, in macchina, e ora anche sui monopattini: è uno dei problemi del ciclismo, la sicurezza non è all’altezza di un paese come l’Italia. Dovremmo educare sin da piccoli i nostri giovani al rispetto del codice della strada».

Lei è tra gli autori del libro «Pantani, eroe tragico». Vinceva il Pirata, ma al traguardo sembrava avesse dentro un demone da debellare ogni giorno; non è che di Marco Pantani alla fine non abbiamo capito nulla?
«Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. La sua foto sul traguardo di Montecampione è il ritratto del sollievo dopo la fatica e la sofferenza. Non a caso, diceva di andare forte in salita per abbreviare l’agonia. È stato un fenomeno, ma forse non siamo riusciti a capire fino in fondo chi fosse Marco Pantani».

Lorenzo Fabiano

Sorgente: Corriere di Bologna

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